|  La
      magia del vecchio John Lee “l’Uncino”, all’alba degli ottant’anni,
      ha saputo rivivere l’ennesima rinascita artistica di una carriera che
      giustifica tutte le leggende di connivenza con il diavolo che caratterizza
      la storia del blues. Giustificando di persona il mito dell’eterna
      giovinezza, Hooker è riuscito infatti negli anni Novanta, a vivere l’ennesimo
      periodo d’oro della sua chilometrica carriera, aggiungendo record a
      record.
   John
      Lee Hooker nasce il 22 agosto 1920 a Clarksdale, Mississippi, (per
      anni ha fatto credere di essere nato nel 1917 perché questa è la data
      che aveva dichiarato all’esercito, all’unico scopo - sono parole sue -
      di indossare la divisa «che garantiva successo con le donne»).La sua è
      una famiglia numerosissima (difficile accertare la verità in questi casi,
      ma di sicuro aveva almeno dieci fratelli) che lavora nei campi di cotone e
      il padre è un predicatore che odia il blues. A insegnargli a suonare la
      chitarra nello stile della musica del diavolo pensa comunque il patrigno,
      Will Moore, che lo porta con sé nelle esibizioni nelle bettole dei
      dintorni. Sembra anche che dalle sue parti John Lee e Will Moore abbiano
      modo di incontrare alcuni padri fondatori del blues come Blind Lemon
      Jefferson, Blind Blake e Charlie Patton. Moore fa il mezzadro in una
      fattoria e potrebbe garantire al figlioccio un futuro ben più roseo della
      maggioranza dei neri della sua generazione, ma lo spirito irrequieto di
      John Lee ha il sopravvento e lo porta lontano da casa a quattordici anni
      in cerca della sua strada e del suo destino. Si stabilisce nella città
      più ricca di blues del Sud, Memphis, dove lavora come portiere in un
      teatro di Beale Street, suonando per la strada ogni volta che ha tempo
      libero. E’ qui che tra gli altri incontra maestri come Robert Nighthawk
      e Tommy McClennan, mentre è Tony Hollins a insegnargli il brano Crawlin’King
      Snake che con il tempo diventerà uno dei suoi più grandi successi e un
      suo cavallo di battaglia.   L’esperienza
      in città, però, non lo entusiasma, anche perché è ancora troppo
      giovane per potersi esibire nei club. Deluso, torna per qualche tempo a
      vivere nel Mississippi, ma nel ’33 si sposta verso Nord, a Cincinnati, e
      lascia il blues per unirsi a gruppi gospel come i Fairfield Four, i Big
      Six, i Delta Big Four. Poi, come molti altri emigranti di colore della sua
      generazione, viene attratto dal boom dell’industria motoristica degli
      anni Quaranta. Così si sposa e nel ’43 prende la strada di Detroit.
      Nella città della Ford inizia a lavorare alla catena di montaggio,
      tornando a suonare il blues di notte dopo averlo lasciato sedimentare nel
      profondo della sua anima per dieci anni. Alla guida di un gruppo
      estemporaneo che accompagna Boogie Woogie Red e Jimmy Reed contribuisce
      significativamente a movimentare la scena blues della Motor City fino a
      quando non viene contattato da Bernie Besman ed Elmer Barbee. E’
      proprio nel retro del negozio di dischi di Barbee che Hooker inizia la
      propria carriera di registrazione nel ’48, incidendo subito quello che
      diventerà un classico nonché un vero e proprio tormentone del suo
      repertorio, Boogie Chillen. Pubblicato dalla Modern, il brano mette già
      in mostra la propensione di Hooker per il suono ipnotico e monotono della
      chitarra accompagnato dal ritmico battito del piede che fa vibrare i tappi
      di Coca-Cola che ha fissato alle scarpe. Su questo tappeto sonoro
      avvolgente l’Uncino fa calare il suo scuro borbottio vocale che riporta
      ai tempi andati del country blues, in antitesi con i suoni elettrici che
      stanno dominando le classifiche di vendita dei dischi destinati al
      pubblico di colore. Eppure il brano raggiunge la prima posizione nelle
      classifiche R&B all’inizio del ’49. Da quel momento in poi ogni
      sua uscita è un successo.   John
      Lee incide senza soste dal ’49 al ’52 per diverse etichette, come
      di prassi dribblando i vincoli contrattuali con un’infinità di
      pseudonimi (si ricordano Birmingham Sam, Delta John, Texas Slim, Johnny
      Lee, John Williams, Boogie Man, John Lee Booker, ma sicuramente l’elenco
      non è completo). In aggiunta a questa frenetica attività l’astuto John
      Lee trova anche il tempo di lavorare come disc jockey in una stazione
      radio locale, promuovendo così il suo lavoro sotto mentite spoglie. Ma,
      come l’antica legge del blues insegna, per un successo di così vaste
      proporzioni c’è sempre un prezzo da pagare. E il diavolo reclama il suo
      tributo. Da sempre donnaiolo impenitente, nel ’50 il buon John Lee corre
      il rischio di rimetterci la pelle per colpa di un whiskey avvelenato,
      forse per mano di un rivale, forse di una donna tradita (dodici anni prima
      Robert Johnson non è stato così fortunato da cavarsela). La vicenda,
      comunque, non lo tocca più di tanto e per la Modern mette comunque in
      circolazione classici come Crawlin’King Snake nel ’49 e I’m In The
      Mood nel ’51, ma anche nel materiale pubblicato da Regal, Gone, Staff e
      Sensation il suo caratteristico sound è riconoscibilissimo, basato com’è
      su riff di chitarra profondamente ancorati ai suoni del Delta sempre
      accompagnati dal battito ritmico del piede che ne accresce i toni oscuri e
      l’intensità emotiva.   Dal
      ’52 al ’54 Hooker è sotto contratto con la Chess, ma non perde l’abitudine
      di vendere i suoi pezzi anche ad altre etichette come la Gotham, la Savoy
      e la Specialty. Il grande fiuto per gli affari lo porta a modificare il
      proprio stile secondo l’andamento dei gusti del pubblico quando all’inizio
      degli anni Cinquanta iniziano a farsi notare bluesman più sofisticati di
      lui come B.B. King che rischiano di oscurare la sua popolarità. La casa
      discografica alla quale lega maggiormente il proprio nome tra gli anni
      Cinquanta e i Sessanta è la Vee-Jay, per la quale incide fino al ’64.
      E, mentre in patria propone un blues acustico appositamente arrangiato per
      sfruttare il boom del folk revival che sta spopolando tra il giovane
      pubblico bianco di città come New York e San Francico, due tra i suoi
      più riusciti brani elettrici del periodo - Dimples (1956) e Boom Boom
      (1962) - hanno una grande influenza sulla nascente scena del British
      blues. In ogni caso nei Sixties Hooker incide tantissimi brani sia
      acustici sia elettrici, spostando di poco il baricentro del proprio stile,
      sempre legato a schemi ripetitivi e ipnotici che caracollano
      sotto la sua voce bassa e minacciosa.    Nel
      frattempo i giri di concerti in Europa e le partecipazioni ai festival
      di Newport, oltre alle esibizioni in locali tipicamente rock come The
      Scene e l’Electric Circus a New York lo fanno diventare una celebrità
      per il pubblico bianco. E probabilmente è proprio a uso e consumo dell’audience
      bianca che incide album come The Folk Blues Of John Lee Hooker del ’59 e
      The Real Folk Blues del ’66. Almeno a giudicare dalle incisioni che
      fruttano, i tour inglesi e le session con gruppi come lo Spencer Davis
      Group di Steve Winwood e i Groundhogs di T.S. McPhee (che hanno preso il
      nome dalla sua Ground Hog Blues) non sono esaltanti ma incrementano la sua
      popolarità tra il giovane pubblico del rock e in questo periodo sono
      innumerevoli i gruppi di ragazzi bianchi che pagano il proprio tributo al
      vecchio eroe nero. Si possono citare in campi distanti dal blues i Doors e
      gli MC5 e in ambiti più vicini alla musica del diavolo gli Animals di
      Eric Burdon e i Canned Heat che lo riconoscono come il vero maestro del
      boogie ed entrano in studio con lui per le fortunate sessions di Hooker’n’Heat
      nel ’70. Intanto Hooker ha scelto il sole della California. Ha infatti
      lasciato Detroit per Oakland e pubblica lavori come Endless Boogie, Never
      Get Out Of These Blues Alive, Free Beer And Chicken che mette assieme
      essenzialmente riciclando idee, riff e intuizioni dei propri lavori
      precedenti, spesso rivendendo le medesime canzoni con altri titoli, senza
      vergogna, ma riuscendo quasi sempre a mantenere una tensione emotiva che
      contrasta con la trasandatezza degli intenti, che sono puramente
      commerciali.   Anche
      per questioni anagrafiche, alla fine degli anni Settanta l’Uncino
      sembra destinato a scomparire progressivamente dalle scene, complici un’oggettiva
      caduta d'interesse del grande pubblico per il blues, sia una gestione un
      po’ troppo disinvolta della sua popolarità e del suo sound. Ci sono
      etichette come la Charly, la GNP Crescendo, la Chameleon e la Chess che
      continuano a riproporre al pubblico il suo materiale del passato, mentre
      lui frequenta sempre il giro dei festival e nell’80 la partecipazione al
      film Blues Brothers lo rivela in forma smagliante con la sua distaccata
      interpretazione, anche se per la maggior parte di quel decennio resta
      praticamente inattivo sul versante discografico. Nell’85 gli viene
      attribuito a Memphis il National Blues Award, vince il W.C. Handy Award
      come cantante maschile tradizionale e la sua Boogie Chillen viene ospitato
      nella Blues Hall Of Fame come un classico tra i singoli. L’ambiente,
      insomma, in pratica inizia a trattare Hooker quasi fosse una vecchia
      gloria in disarmo e in effetti bisogna ammettere che Jealous, pubblicato
      dalla pausa nell’86, non è certo un lavoro indimenticabile. Il nome di
      John Lee Hooker sembra destinato a ingrossare le fila dei bluesman del
      passato quando a sorpresa, nell’89, il vecchio leone inaugura l’ennesima
      fase della propria carriera. La Chameleon pubblica infatti The Healer, un
      album prodotto dal fedele chitarrista bianco Roy Rogers che vede la
      partecipazione tra gli altri di Bonnie Raitt, Carlos Santana, Robert Cray
      e George Thorogood. Il disco vende meglio di ogni suo altro lavoro e
      raccoglie critiche entusiastiche, vincendo anche un Grammy Award.   Arriva
      nel ’90 l’ingresso nella Rock & Roll Hall Of Fame e poi un
      concerto-tributo al Madison Square Garden di New York al quale partecipano
      personaggi come Bonnie Raitt, Joe Cocker, Huey Lewis, Ry Cooder, Bo
      Diddley, Gregg Allman,Al Kooper, Johnny Winter, Willie Dixon e Albert
      Collins. L’anno dopo viene pubblicato il suo lavoro più riuscito e meno
      noto della sua incredibile rinascita tardiva, Hot Spot, intensa colonna
      sonora per l’omonimo film di Dennis Hopper che lo vede al fianco di
      Miles Davis in un’estrema e coraggiosissima fusione di blues rurale e
      jazz. Improvvisamente il suo nome è sulla cresta dell’onda e il vecchio
      Uncino non si fa pregare. Firma un ricco contratto con la Pointblank/Charisma
      e nel ’91 incide un altro disco infarcito di ospiti, ancora più
      fortunato del precedente già a partire dal titolo, Mr. Lucky (questa
      volta tra le guest star si segnalano Albert Collins, Ry Cooder, Robert
      Cray, Johnny Winter, Carlos Santana,Van Morrison, John Hammond e Keith
      Richards). Il successo che gli decretano sia la critica sia il pubblico è
      ancora più vasto e The Hook aggiunge un altro record - sicuramente poco
      gradito dall’arzillo donnaiolo - alla sua carriera: quello di essere l’artista
      più anziano a raggiungere il terzo posto nelle classifiche di vendita
      inglesi. Ma non basta ancora. E’ di ottima qualità l’intimistico Boom
      Boom (Pointblank del ’92) e poi, sempre più vicino al traguardo degli
      ottant’anni, “The Iron Man” non ha alcuna intenzione di abbandonare
      il trono che ha appena riconquistato e nel ’95 incide l’ennesimo
      ottimo lavoro di quest’ultima parte di carriera, Chill Out. Nessuno ha
      il coraggio di dirglielo, ma con Don't Look Back, edito dalla Pointblank
      nel ’97, anche il vecchio leone sembra un po’ sottotono, complice la
      produzione un po’ sfilacciata dell’amico di antica data Van Morrison:
      una rivisitazione stanca di vecchi pezzi tra cui spicca esclusivamente una
      curiosa Red House di Jimi Hendrix. Ma quest’ultimo mezzo passo falso non
      può certo fare ombra al suo nome che tra gli altri meriti ha quello di
      aver imposto come modello il suo stile personale, difficile da riferire ad
      altri esempi.   Il
      suono del re del boogie, con il suo incessante accordo ritmico che
      dura da più di cinquant’anni, può infatti di per sé rappresentare un
      buon terreno di studio del linguaggio del blues. I toni scuri della su
      chitarra, le accordature aperte e i riff ipnotici e febbrili riportano
      alle origini della musica del diavolo, senza poi citare il suo mormorio
      che può diventare di volta in volta minaccioso e arrogante, oppure
      allusivo e sensuale. Brani che spesso assumono il valore di una cruda e
      viscerale poesia primordiale, senza cedere alla tentazione degli
      abbellimenti più presunti che reali che non appartengono alla vicenda del
      blues e che troppo spesso hanno contaminato il lavoro dei suoi coetanei e
      delle generazioni seguenti. Un monologo cupo scandito dal tempo antico del
      blues che riporta all’individualismo fatalista dei vagabondi neri degli
      anni Venti e Trenta con in più il rumore ossessivo delle catene di
      montaggio della Motor Town Detroit. Uno stile inconfondibile, insomma,
      quello di John Lee Hooker che, complici i suoi pseudonimi e le sue
      scorrettezze contrattuali, è anche stato tra i più incisi della storia
      del blues (non è da invidiare chi deciderà di mettere mano nelle
      centinaia di brani che l’Uncino ha registrato per decine e decine di
      etichette). Tra l’altro il suo recente successo si può leggere anche
      una sorta di rivincita nei confronti di Muddy Waters, suo grande rivale e
      vera e propria icona blues per il pubblico degli anni Settanta: una
      rivincita della sregolatezza e del suo stile chitarristico percussivo e
      primordiale che se ne infischia delle sequenze di accordi, seguendo
      semplicemente l’estro momentaneo e una rivalsa del suo borbottio
      indifferente e maleducato. Da parte sua, in sintonia con le mille
      contraddizioni che hanno contrassegnato la sua vita burrascosa, l’ultimo
      dei grandissimi protagonisti della musica del diavolo ringrazia ogni
      giorno il Creatore per la fortuna che gli è toccata, magari in compagnia
      del figlio, predicatore e tastierista. Ricco e famoso, ma non ancora domo,
      oggi resta l’ultima leggenda vivente che ci collega alla musica del
      Delta.   Gianni
      Vescovo - 22 Giugno 2001 
   ©  "Caserta
   Musica & Arte" | DISCOGRAFIA   Parlare
      di discografia, nel caso di John “l’Uncino”, è praticamente
      impossibile. Sono centinaia e centinaia
      gli album della sua immensa carriera, e confesso di conoscerne appena il
      50%. Potrò parlare di quelli in mio possesso, peraltro non saprei, degli
      altri, quanti saranno reperibili.    
 BURNIN’
      : Edito nel 1962, in puro stile Detroit Blues , si ramifica in un iter
      misterioso e borbottante, come nello
      stile più puro di Hooker. Da ascoltare particolarmente “
      Boom, Boom” e “ Blues Before Sunrise”.  
 HALF
      A STRANGERS: Un’ approfondita release della migliori registrazioni di
      John Lee Hooker, tra il 1948 e 1954. Una superba “Crawlin’ King Snake”
      e “Boogie Chillen”.  
 LIVE
      AT CAFE’ A GO-GO’: Registrato” live” nel 1968, contiene flessioni
      musicali verso le sue origini del Delta. Mi è particolarmente gradito l’ascolto
      di “ I’m Bad Like Jesse James” e di uno dei miei brani preferiti del
      “One Bourbon, One Scotch, one Beer”.
       
 THE
      DEFINITIVE COLLECTION: Una delle più belle Collection su J.L.Hooker,
      edito dalla AMG e stampato il 25 Aprile
      2000. Molte le chicche presenti, tra le
      quali ritroviamo ancora: “Boom, Boom”, presente
      nel film con i Blues Brothers, “Dimples”, “This is Hip”
      in session con Ry Cooder, e la mitica “ I’m Mad Again”.    
 Una
      particolare segnalazione alle session con Big Head Todd & The Monsters,
      di cui un “Live” del 1988 e un’
      album in studio, registrato nel 1987 “ Beautiful World”, dove in
      entrambi si può ascoltare una particolarissima interpretazione di “
      Boom, Boom”. Consiglio, inoltre, l’
      ascolto di due versioni contrapposte di “Dimples”. La prima in
      versione classica e l’ altra in
      session con i “Los Lobos” in chiave nettamente psichedelica.  
 
   APPROFONDIMENTO Il
      brano che andremo a scandagliare in questa puntata è “Boom, Boom”, in
      quanto e uno dei brani che ha avuto
      varie interpretazioni, sia personali che in session, e in fin dei conti è
      un brano che apprezzo molto.   Boom
      Boom di
      John Lee Hooker, registrato nel 1961   Boom
      boom boom boom I'm
      gonna shoot you right down, right
      offa your feet Take
      you home with me, put
      you in my house Boom
      boom boom boom A-haw
      haw haw haw Hmmm
      hmmm hmmm hmmm Hmmm
      hmmm hmmm hmmm I
      love to see you strut,(*) up
      and down the floor When
      you talking to me, that
      baby talk I
      like it like that Whoa,
      yeah! Talk
      that talk, walk that walk When
      she walk that walk, and
      talk that talk, and
      whisper in my ear, tell
      me that you love me I
      love that talk When
      you talk like that, you
      knocks me out, right
      off of my feet Hoo
      hoo hoo Talk
      that talk, and walk that walk Oh,
      yeah!   Appunti(*) STRUT:"ballando
      bene" originalmente, ma divenne sinonimo dei
      movimenti ritmici di rapporto sessuale. Ma anche
      a significato di un portamento orgoglioso, camminare
      con un'aria pomposa ed affettata.   TRADUZIONE BOOM,
      BOOM (il susseguirsi rapido di una emozione) Sono
      in una rapida espansione, mi sento in una rapida espansione, quando
      la vedo camminare ondeggiando la sua gonna, bisbigliandomi
      nelle orecchie le frasi che voglio sentire. Vorrebbe
      sbattermi fuori, ma io preferisco portarla in casa, e
      mi piace quando cammina cosi impettita. Quando
      lei mi parla con quel linguaggio infantile, che cammina, si che Cammina,
      mi sento in rapida espansione, sono in rapida espansione. 
   RIFLESSIONI“I
      HAVE A DREAM, TODAY” “I
      have a dream that my four children will one day live in a nation where
      they will not be judged by the color of their skin but by the content of
      their character. I have a dream today”. (
      Martin Luther King) |