Quattro chiacchiere con Paolo Pasi .....

...sui libri, la musica, i sogni e la libertà, l'anarchia e la distopia - novembre 2013

Articolo di Roberta Cacciapuoti

La scorsa settimana lo scrittore e giornalista Paolo Pasi si è tuffato in una tre giorni casertana che lo ha visto incontrare gli studenti di molte scuole superiori della provincia. Paolo Pasi ha vinto il premio giornalistico Ilaria Alpi e il premio Giallomilanese, ha pubblicato per Edizioni Spartaco nel 2009 il romanzo "Memorie di un sognatore abusivo", e nel 2011 la raccolta di racconti dal titolo "E il cane parlante disse bang". Novità del 2013 è il romanzo "Il sabotatore di campane", storia di un orologiaio anarchico che involontariamente accende i riflettori su un paesino quasi dimenticato. Paolo Pasi è anche chitarrista e compositore: il cd Fuori da schermi raccoglie nove canzoni, di cui ha scritto musica e testi. L'ho incontrato per parlare di libri, di musica, di anarchia, di sogni e di libertà, di distopia e di tanto altro, ecco com'è andata.

R.C.: Nel suo ultimo libro, "Il sabotatore di campane", lei parla della poesia come canto degli sconfitti, è quindi la scrittura azione che va oltre le azioni? Che le indaga e le mostra per quello che sono, le porta alla luce?
P.P: Parlo di poesia in un momento particolare della storia, momento durante il quale il protagonista si trova in una cella, perché costituitosi in seguito ad un'accusa di omicidio, e per questo si trova a ripercorrere dolorosamente tutto il suo passato, facendo i conti con quello che l'ha portato fino a quell'epilogo. Trova in una poesia la prima chiave per risalire alle origini di questo suo viaggio, e scopre che in realtà il problema non è vincere o perdere, quanto piuttosto assecondare le battute d'arresto - e non mi riferisco solo a quelle lavorative o economiche, ma anche e soprattutto alle battute d'arresto esistenziali. Ecco: queste sono un momento doloroso che può, però, portare a elaborare da questa sofferenza qualcosa di vitale. Nella poesia c'è uno slancio vitale che sicuramente è un'affermazione di sé, di qualcosa che è profondamente radicato in noi stessi. Il canto degli sconfitti evoca per me anche qualcosa che riguarda il blues, forma poetica in musica per eccellenza: le piantagioni, gli schiavi, e i canti dolenti sono sì canti degli sconfitti, ma che contengono in loro anche un forte senso di ribellione e di resistenza. La sconfitta è vista come premessa alla resistenza e alla vittoria di certi valori.


R.C.: Nel suo "Il sabotatore di campane" il protagonista Gaetano decide di spegnere la voce di Dio mettendo a tacere le campane delle chiese. E' questo, in un certo senso, anche un intervenire sul tempo, fermando un istante e bloccando la memoria all'eccidio dimenticato?
P.P.: E' sicuramente una forma di resistenza al tempo molto utopica e illusoria. Ci sono due sfide nel protagonista: l'intenzione più esplicita è quella di raffigurare un gesto simbolico che nella sospensione del tempo e nel silenzio conseguente evocasse la memoria di morti senza nome, di vittime innocenti di questo eccidio. C'è però nell'accanimento del protagonista anche una sfida personale contro il tempo: sospendere il tempo vuol dire sospendere anche i momenti che hanno caratterizzato il suo viaggio, i momenti belli e felici che ha dovuto abbandonare per riprendere questo viaggio. La paura della felicità è una forma di confronto con la vita antitetica alla libertà, ma in alcuni momenti ci spinge ad un'azione che pensiamo possa rivelarsi per noi positiva. Ci sono dei momenti chiave nel viaggio del protagonista - come la nascita di una figlia, l'abbandono della Comune nel Canton Ticino per tornare in Italia - che segnano per lui l'intenzione di tornare alla battaglia e alla lotta politica, ma che rappresentano anche una fuga. E' una sfida personale contro il tempo di un uomo che nell'invecchiare vede anche ridimensionati alcuni suoi obiettivi mentre altri non li vede intaccati. Piuttosto che assecondare la corrente del tempo, c'è un momento nella vita di quest'uomo in cui intende contrastarlo.
L'anarchico come orologiaio cerca anche di contrastare la rapidità e la velocità che caratterizzano il ritmo produttivo dai primi anni ottanta, costruite come una gabbia intorno ai nostri doveri di lavoratori, questo gesto ha quindi anche un significato politico.

R.C.: Nel suo libro ci racconta l'anarchia. Ci racconta la voglia di gesti forti e simbolici che attirino l'attenzione.
P.P.:
E' un sogno di libertà per il protagonista e non solo. Lo è per tante persone che si sono ritrovate in una storia minore quasi invisibile, parallela a quella ufficiale, che però esiste ed è purtroppo certificata da tante sconfitte che non sono state mai definitive. Nella sintesi di una canzone, che è molto più pregnante e precisa di tanti lunghi romanzi, ovvero "Gli anarchici" di Léo Ferré - tradotta anche in Italiano - c'è tutto. Nella canzone si parla di tenacia nel perseguire il valore della libertà. Non mancano ovviamente i detrattori, nella migliore delle ipotesi questi dicono che l'anarchia è un'utopia irrealizzabile perché basata su una visione troppo ottimistica delle possibilità dell'uomo di autoregolarsi senza autorità - nonostante ci siano nella storia dell'essere umano società che sono vissute con molti meno vincoli gerarchici della nostra -, nella peggiore delle ipotesi invece il pensiero anarchico viene quasi negato per mostrare in primo piano solo l'aspetto violento e minaccioso. Pietro Gori - studioso e anarchico - diceva che gli anarchici sono l'opposto delle sette carbonare, essi non fanno complotti, in quanto credono nell'autonomia del singolo. E' forse troppo ingombrante questo responsabilità della libertà che si preferisce rinunciarvi in cambio di comode sicurezze.

R.C.: Nel libro si affronta anche il tema dello sciacallaggio mediatico che deriva dall'ossessività nei confronti dei fatti di cronaca, che attiri l'attenzione su Roccapelata, e della follia collettiva dei cittadini che ne deriva.
P.P.:
E' un elemento ricorrente nell'esperienza di spettatori, ma anche di operatori dell'informazione. Esiste sicuramente, come il rovescio della medaglia di una libertà che ci si nega, un bisogno di visibilità che, per quanto effimera, ci consegna l'illusione che siamo diversi dagli altri, anche in peggio. Questo spiega l'affermazione di alcuni generi televisivi, ad esempio il reality show, che spesso mette in scena il peggio di noi. Per chi guarda questo ha sicuramente una funzione consolatoria, mentre nei protagonisti genera un senso di superiorità dovuto al solo fatto di esserci. Ho voluto estremizzare questo aspetto. Il fatto che una persona arrivi ad autoaccusarsi di aver avuto un ruolo in un delitto inesistente secondo me è un gradino appena successivo.

R.C.: Che ruolo ha la musica nella sua scrittura?
P.P.:
E' più un ruolo inconsapevole, perché mi rendo conto che mi piace il fatto che la mia scrittura si pieghi al ritmo di chi ha un orecchio più musicale. Io suono da quando ho quattordici anni, ho studiato solfeggio, chitarra… e alla fine questi studi mi hanno sicuramente lasciato dentro qualcosa. Nelle nostre parole trascritte c'è qualcosa che assomiglia al ritmo. Ci sono moltissimi scrittori che hanno voluto sperimentare in modo più consapevole tutto ciò: ad esempio in Kerouac ne "I Sotterranei".

R.C.: Il suo romanzo precedente, "Memorie di un sognatore abusivo", è una distopia. Quest'ultima è vista come modo di raccontare un futuro possibile ma soprattutto come modo di criticare gli aspetti negativi del presente - pensiamo ad esempio a "1984" di Orwell.
P.P.:
L'elaborazione di questo romanzo è nata come un gioco per assorbire le quotidiane frustrazioni della routine, che segnano la vita di tutti noi. Ho voluto annotare come in un diario alcune impressioni facendone, però, una trasposizione nel futuro. La bellezza di questo gioco è stata per me quella di poter immaginare come potrebbe essere il futuro, avendo il privilegio di poter osare - considerando che è molto difficile in un'epoca segnata da grandi sbalzi tecnologici poter immaginare cosa potrebbe accadere domani. Tutto ciò che riguarda le possibilità accresciute di controllo legate a grandi balzi tecnologici è qualcosa su cui si interrogava Russell, insieme a tanti altri, sin dagli anni '50. Il mio romanzo ha sicuramente molti riferimenti al presente - ci sono ad esempio abbiamo il reality del telegiornale "TG Anche Tu", o l'installazione di un microchip sottocutaneo per controllare lo stato di sonno e di veglia dei cittadini, tutte cose pericolosamente vicine ai giorni nostri. Tutto ciò che accresce la comodità, che ci fa evitare le code alle casse, penso ad esempio alle carte fedeltà, insomma tutto ciò che aumenta le possibilità minime di risparmio, noi le prendiamo. Concediamo, però, in cambio qualcosa di molto più pesante: ovvero la possibilità di dare di noi un profilo di consumatori molto preciso, lasciando tracce così precise di noi senza neanche rendercene conto, finiamo per essere "schedati".

R.C.: Esprimersi in musica ed esprimersi in storie, racconti, romanzi… che differenza vede e in che modo affronta le diverse arti alle quali si approccia.
P.P.:
L'esprimersi in musica è necessariamente rivolto agli altri sin dall'inizio, è estroverso, è bello perchè richiede il canto, una metrica precisa, sintesi, meno parole e più immagini. Scrivere un racconto è un'attività che nell'immediato comporta la solitudine totale e anche a volte prolungata, quando si scrive un romanzo. Richiede una concentrazione e una continuità maggiori nel tempo. E' più faticoso, ma quella che ne deriva è una fatica positiva, che passa anche attraverso il tormento, ma soprattutto attraverso la scelta. Se lo si sceglie è perché dà gioia.
Mi piace comunicare attraverso i libri, ma a volte non riesco nemmeno io a spiegare fino in fondo il senso di tutto ciò che ho scritto, se non rileggendoli anche ad anni di distanza. Nella musica mi sento sicuramente più ragazzo, torna in circolo la mia adolescenza. E' come avere questo ragazzo che si annida dentro e che ritorna quando mi avvicino alla musica. Una delle cose più belle che mi sia mai sentito dire, me l'ha detta un detenuto nel carcere di San Vittore: andai per presentare dei racconti e finimmo per suonare delle canzoni, mi disse "Tu non invecchierai mai, quando suoni la chitarra sei un ragazzo". Mi piacque molto perché mi sembrò di aver condiviso colori, in una situazione caratterizzata dalla reclusione, e la musica è anche questo.

R.C.: In un momento di crisi come questo, cosa consiglierebbe ad un giovane scrittore che vuole approcciarsi al mondo della letteratura e dell'editoria.
P.P.:
Direi di lasciarsi guidare dal piacere di farlo, più che dal giudizio di altri. Rassegnarsi al fatto che ci sarà qualcuno che cercherà di ridimensionare il tuo lavoro. Bisogna distinguere le critiche importanti, che sono spesso anche consigli e suggerimenti, e le critiche distruttive, che sono fatte solo per denigrare. Mi piace ricordare sempre Fernanda Pivano, che leggendo l'inizio di "Memorie di un sognatore abusivo", mi diede questo bellissimo suggerimento in un modo molto semplice e immediato: "Devi tagliare", mi disse. Secondo lei dovevo eliminare molti elementi descrittivi che considerava inutili poichè rallentavano l'azione. Questo secondo me è il modo giusto per dare suggerimenti e per fare critiche costruttive.
E' Il processo creativo quello che dà il massimo del godimento, non il successo. La parte più bella consiste nella creazione, quel momento in cui, nell'isolamento e nel contatto con se stessi, arriva l'idea.

R.C.: Come sono andati gli incontri di questi giorni con i ragazzi delle scuole casertane?
P.P.:
Benissimo, sono molto contento. Mi aspettavo qualcosa di più istituzionale, invece ci sono state parecchie domande da parte degli studenti, che smentiscono i luoghi comuni sulla cosiddetta apatia giovanile. Si sono dimostrati persone che hanno i loro interessi e le loro curiosità. Tra questi giovani ho ritrovato tanti comportamenti che appartenevano anche alla mia generazione, e a quelle prima. Gaber racconta in una sua canzone, "C'è solo la strada", di come cambino molte cose, ma le abitudini di fondo, i comportamenti umani restino sempre gli stessi. Questo mi piace: aver trovato nelle domande di questi ragazzi, nelle curiosità, qualcosa che apparteneva anche alla mia generazione, compresa una sana diffidenza nei confronti dell' "autore".

R.C. Ultima domanda, la più difficile, forse: quali dischi porterebbe su un'isola deserta.
P.P.:
La Sinfonia n° 2 di Mahler sicuramente, è qualcosa che mi ha sconvolto interiormente. "Space Oddity" di David Bowie, "Foxtrot" dei Genesis. Degli italiani penso che porterei Piero Ciampi, "Piero Litaliano" è un grande album, e poi Rino Gaetano, Tenco, Ivan Graziani, mi piace tantissimo Gaber…è difficile definire questi artisti con un unico album. Poi tutto il blues… su tutti BB King "The thrill is gone".

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