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Suor Pacifica in due foto del 1930

 


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Mia “zia Monaca”: un tuffo nel passato

Storia di Suor Pacifica, suora casertana di inizio secolo

Articolo di Lorenzo Di Donato - pubblicato il 19/01/2009

La famiglia Troianiello nel 1907. La futura suor pacifica è la seconda ragazza in piedi, da sinistra. La bimba piccola al centro è Gennarina, la mamma di chi scrive. In piedi coi baffi nonno Francescantonio, classe 1860

 

“Questo è il patrimonio che posso lasciare in eredità a tutti senza distinzione: l’amore di Dio e del prossimo; voler bene a tutti; avere Dio sempre in vista; chiamare sempre in aiuto la Vergine Maria, in tutte le necessità; prendere a modello il Crocifisso”.

Con questa frase si chiude il testamento spirituale che suor Pacifica, delle Suore Riparatrici del Sacro Cuore di Gesù, al secolo Maria  Giuseppa Troianiello, scrisse ai suoi nipoti con grafia incerta su un foglio di quaderno di seconda elementare nel 1968 poco prima di rendere la sua bella anima a Dio, a cui l’aveva donata fin dall’età di dodici anni.

Aveva perso la mamma nel 1887 quando non aveva ancora un anno (è nata il 29 Ottobre 1886) ma amò e rispettò la seconda moglie di suo padre.  Quando, poco più che bambina, manifestò la volontà di farsi suora, i suoi genitori non assecondarono la sua scelta anche perché condizionati dalla possibilità che nel paese si pensasse che  la matrigna si togliesse di torno la figliastra chiudendola in convento.

La forte resistenza dei suoi genitori si piegò solo quando Maria Giuseppa  raggiunse la maggiore età e confermò a loro, ancora una volta, di voler dedicare la sua vita a Dio. Avrebbe voluto  scegliere un monastero di un Ordine di clausura perché la sua vita fosse solo preghiera, ma si arrese alla volontà dei genitori che preferirono le Suore Riparatrici del Sacro Cuore perché consentiva loro di poterle far visita, di vivere ogni tanto con lei, anche se per tempi molto limitati.

E così fu suor Pacifica, perché la Fondatrice dell’Ordine ne aveva apprezzato da subito  la docilità e la pietà.

La vita di suor Pacifica fu comunque solo lavoro e preghiera perché volle servire tutti, diventando cuoca e lavandaia della comunità in cui fu mandata dopo aver preso i voti, l’Istituto delle Suore Riparatrici del Sacro Cuore di Gesù che era, ed è, in Via Tanucci, a Caserta.

Ho di lei, sorella amatissima di mia madre, dolci ricordi legati alla mia infanzia ed alla mia gioventù, ricordi che condivido certamente non solo con tanti casertani che l’hanno conosciuta nella loro infanzia, quando frequentavano l’asilo o la scuola elementare dell’Istituto parificato annesso al monastero, ma anche con centinaia e centinaia di ragazze che furono ospiti del Convitto, frequentatissimo fino agli anni 70 dello scorso secolo.

La cucina dell'istituto della Suore Riparatrici del Sacro Cuore, in via Tanucci - 1930 circa

Se la foto qui sopra vi  illustra almeno parte della grande cucina dell’Istituto – suor Pacifica è ritratta con alcune novizie, in primo piano,  e con suor Edvige, vera  “artista” del ricamo -  i miei ricordi possono fare comprendere ai più giovani di me cosa significasse lavare i panni allora.

Il lavatoio era nel giardino dell’Istituto: due grosse vasche in pietra e muratura  poste sotto una tettoia senza alcuna porta o finestra.  D’inverno era un vero tormento lavare in quel luogo centinaia di lenzuola per le suore e per le centinaia di convittrici ospiti, oltre agli indumenti intimi, alle tovaglie, etc... I panni venivano insaponati e strofinati a mano sulle pietre del lavatoio, posti poi in una grande tinozza e ricoperti da un telo su cui si versava una soluzione  bollente a base di cenere, la liscivia. Il telo fermava la cenere e lasciava passare la liscivia che rendeva i panni bianchissimi. Questa operazione trasformava il lavatoio nell’antro di Vulcano per la grande quantità di vapore acqueo che si levava dalla grossa tinozza. Dopo un certo tempo si faceva uscire la liscivia da un foro praticato nel fondo della tinozza, quindi si toglieva il telo con la cenere ed i panni venivano sciacquati e risciacquati per togliere l’odore della liscivia. Ancora  lavoro richiedeva la strizzatura a mano per torsione dei panni sulle pietre del lavatoio, o, se lenzuola o tovaglie, da due robuste suore o  novizie che arrotolavano con forza i due  capi in senso inverso.  Quindi i panni venivano stesi ad asciugare, se c’era il sereno.

Era una fatica improba ed anche micidiale: le mani di suor Pacifica erano deformate dall’artrosi causata proprio da questo lavoro protrattosi per lunghi anni. Ma non l’ho sentita mai lamentarsi né mai sottrarsi a questo improbo lavoro, anche in tarda età.

Ma “zia Monaca”, come affettuosamente la chiamavamo, era avvezza al sacrificio. E generosa. Quando, durante la seconda guerra mondiale, tutto era razionato ed insufficiente, riusciva a dare a mia madre qualche sfilatino di pane per noi sei fratelli. A mia madre, che cercava di rifiutarlo per timore che fosse sottratto alle suore (e di nascosto, poi!), fu rivelato che nulla veniva tolto alle suore, ma quello sfilatino era quanto zia Monaca, suor Arcangelina, che era stata sua allieva in cucina, e qualche altra suora mettevano da parte per noi sottraendolo alla loro porzione giornaliera.

Spesso andavo a trovarla e lei, se poteva, mi metteva subito al lavoro.

Cose da poco, naturalmente, tanto per tenermi impegnato: macinare il caffè con un grande macinino a manovella (che spasso!), cuocere le cialde ottenute schiacciando una pastella di farina di frumento tra due piastre arroventate e ritagliando da esse, con una forbici, le ostie circolari che servivano per essere consacrate dal sacerdote: lavoro che era premiato con i ritagli della cialda (che buoni!). Debbo precisare che la farina di frumento necessaria per tale operazione era ottenuta dai chicchi di grano che noi, nipotini di zia Monaca, mettevamo da parte in un sacchetto nei mesi di maggio e giugno per ogni piccola buona azione che compivamo o piccole privazioni a cui ci sottoponevamo, i “fioretti”. A luglio davamo i sacchettini ripieni di semi di grano a zia Monaca che ci ringraziava, ci faceva un fervorino e… ci faceva ringraziare il Signore con una preghiera per essere stati così buoni!

Qualche volta mi mandava in giardino, ma mi controllava affinché non mangiassi i frutti del giardino, destinati a suore e convittrici. Ma, giocando come gatto e topo, riuscivo comunque a mangiucchiare qualcosa. Lei se ne accorgeva e mi rimproverava: “Sei un banchéro!”. Cosa significasse “banchéro” non l’ho mai saputo, ma ora so che lei sapeva che con tale appellativo  mi spiazzava. Era l’unica punizione che era capace di darmi.

Nel periodo estivo andavo a “servire Messa” nella cappella dell’Istituto, raggiungendo a piedi, naturalmente, l’Istituto e la mia zia Monaca mi preparava sempre una zuppa di latte. Come era contenta della mia presenza! Sperava tanto che mi facessi prete.

Quando le dissi che avevo scelto di formarmi una famiglia, mi disse con semplicità: ”Anche così si può diventare santi”.

Io non l’ho accontentata, ma lei certamente ora è ancora più vicina a quel Signore che, come scrive ancora nel suo testamento spirituale, “per la Sua grande bontà, mi ha lasciato e conservato in vita nonostante le mie tante ingratitudini e infedeltà al Suo servizio, del che veramente mi pento e mi umilio pensando a tante grazie e benefici ricevuti dal Signore”.  

Zia Monaca morì nell’ottobre 1968, a 82 anni, dopo aver scritto il suo testamento spirituale per noi nipoti a cui volle “assicurare che è unico il conforto che si prova nel fare un poco di bene, mentre, al contrario, è forte il rammarico quando si fa il male a se o al prossimo”.

Quel testamento spirituale è rimasto troppo tempo chiuso in un cassetto da non sentirmi colpevole verso zia Monaca e il suo “E ricordatemi“ con cui chiudeva il suo scritto, indice del tanto amore che la pervadeva, del desiderio di “essere” oltre la morte, inaspettato in lei che aveva passato nel servizio, nel silenzio e nella preghiera tutta la vita.

Zia, il tuo chierichetto ricorda, ti ricorda.

Appendice: il testamento spirituale di Suor Pacifica (Casale di Carinola 1886 - Caserta 1968)

 

Amato sia dappertutto il Sacro Cuore di Gesù

Carissimi tutti,

voglio parlare con voi prima di lasciare questa terra, cosa che avverrà in tempi brevi , come sento. Il Signore, per la Sua grande bontà, mi ha lasciato e conservato in vita nonostante le mie tante ingratitudini e infedeltà al Suo servizio, del che veramente mi pento e mi umilio pensando a tante grazie e benefici ricevuti dal Signore, soprattutto liberandomi dalla schiavitù di un mondo perverso e lusinghiero e, solo per grazia Sua, facendomi conoscere la vera realtà.  Non so come ringraziarLo.

Vorrei  che Lo ringraziaste anche voi, miei cari, che sempre vi ho portato nel mio povero cuore e continuerò a portarvici fino all’ultimo suo palpito: il mio cuore, sempre unito a Gesù e alla Sua S.ma Madre Maria ed a San Giuseppe, palpiterà e parlerà per voi tutti, come sempre. Voglio raccomandarvi di essere sempre buoni e religiosi in tutti gli eventi, siano prosperi che avversi:  prendeteli sempre dalla mano di Dio, senza mai perdere la pazienza, senza allontanarvi mai dal Signore, ché solo Lui vi può dare tutto ciò che vi manca.

Vi raccomando ancora di non essere mai invidiosi e di godere sempre del bene altrui, come recita il proverbio “Piangere con chi piange e godere con chi gode”;  di rendere sempre il bene a qualcuno che vi ha fatto del male, ad imitazione di nostro Signore; di seguire il detto di santa Teresa che diceva “Vorrei passare al Cielo facendo del bene sulla terra”. E, con questa mia lunga età, vi posso assicurare che è unico il conforto che si prova nel fare un poco di bene, mentre, al contrario, è forte il rammarico quando si fa il male a se o al prossimo.

Perdonate questi quattro scippi da una povera affabeta che conta i suoi 82 anni.

Ricordatemi qualche volta nelle vostre preghiere, che io non vi abbandonerò dal Cielo, come ho fatto sempre su questa bassa terra. Chi ha questo foglio in mano cerchi di farlo partecipe agli altri perché è questo tutto il mio patrimonio che posso lasciare in eredità a tutti senza distinzione: l’amore di Dio e del prossimo; voler bene a tutti senza distinzione; avere Dio sempre in vista; chiamare sempre in aiuto in tutte le necessità la Vergine Maria; prendere a modello il Crocifisso e considerare la vita un continuo sacrificio. Ma essa, se viene alimentata con la fiamma dell’amore di Dio, diviene un dolce Calvario.  Siate sempre buoni che il Signore vi benedirà, credetemi.

E ricordatemi.

la vostra povera e seccante Suor Pacifica,

vostra indimenticabile zia.

 

 

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