Archivio dei musicisti e gruppi casertani

Potlatch
animazione / teatro / musica 

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I Potlatch parte 13°:
Potlatch Location
di Antonio Iorio

POTLATCH LOCATION


Carnevale 1982 a Calvi Risorta

Le produzioni del gruppo Potlatch si differenziavano tra di esse per tipologia di pubblico a cui erano rivolte. Avevamo gli spettacoli per bambini che venivano prodotti o adattati a seconda della fascia di età scolare o prescolare. Avevamo lo spettacolo per le piazze, ed avevamo uno studio annuo, su di un tema, che forniva materiale per tutte le produzioni. Esistevano poi gli eventi unici, occasioni in cui il gruppo veniva chiamato in un contesto particolare che determinava da solo la forma dello spettacolo. Queste, erano senza dubbio le occasioni in cui il gruppo dava il meglio di sè. Sia perché la performance era stata la prima forma sperimentata e condivisa, sia perché l’evento unico sottraeva lo spettacolo alla routine della produzione in repliche. Anche se produceva un dispendio di energie che non trovava spazio nel tempo.

L’idea che uno spettacolo nascesse e morisse nello spazio in cui era stato pensato; e, per lo spazio e le sue caratteristiche rendeva onore ad una forma di spettacolo blitz che sembrava essere la più consona alla caducità dei tempi correnti. Questa forma significava anche altro, essa voleva dire: non possiamo fare di più, in questo momento, che cogliere la fuggevolezza, l’estremo fascino del vivere l’istante. Pensieri di vita e morte irripetibile venivano condensati in un tempo di scena contratto. L’emozione piccolissima, l’evanescenza di un suono rimasto nelle orecchie, poteva costituire l’elemento di base per un evento.
Ricordo una volta “Gianni V.” ritorno’ da un viaggio a Lisbona affascinato da qualcosa che non riusciva a spiegare, porto’ con se alcune fotografie, fatte da lui, dove si vedevano strade luminose e colorate, gente tranquilla, ricordo distintamente un tram giallo con sulla fiancata la propaganda elettorale. Lo guardammo negli occhi, quell’anno lo spettacolo prodotto si sarebbe chiamato “Lisboa”. Non abbiamo mai avuto la pazienza di chiedergli se in qualche modo avessimo centrato l’obiettivo, sempre che il nostro obiettivo fosse rimasto lo stesso, ed in maniera eguale per tutti. Tante erano le variabili che intervenivano. Purtuttavia, lo spazio nella sua completa totalità, costituiva l’elemento più determinante per gli eventi speciali. Esistono dei luoghi che hanno già scritto nell’anima cosa deve essere fatto. Essi sono perfetti cosi, come sono, non hanno bisogno di nulla. In alcuni casi basta accendere una luce, di notte, e puntarla sul sito. In altri casi basta vederlo ad un ora particolare del giorno o in una determinata stagione, ed allora appare, appare la storia scritta nell’aria e nelle pietre, nei vetri rotti e nelle tracce lasciate da qualcuno, dall’uomo , dalla sua presenza. Lo spettacolo sarebbe già finito se non fosse ancora iniziato. E noi, iniziavamo da li’. Il momento più importante era il primo sopralluogo. Alcune volte partivamo con l’intento di ricercare “il luogo” altre volte siamo stati miracolati, capitavamo in un luogo per caso, in un momento inaspettato o venivamo deviati in quel luogo. Sembrava quasi che quel posto ci attendesse da anni. Lo scoprivamo, poi, dalle parole di qualcuno buttate li, piccole, in un discorso che non c’entrava niente “Perché...li, alla torre ne son successe di cose, se i muri parlassero!” e ancora “Era ora che qualcuno facesse qualcosa per il vecchio castello!” .La gente, soprattutto gli anziani, ma tutte le persone sensibili, avvertivano un senso di colpa verso quel luogo importante abbandonato alla rovina. Il nostro intervento risvegliava l’attenzione, stimolava le idee. Durante il primo sopralluogo ritornavamo bambini; il luogo, diventava il posto prescelto per il gioco, ed il gioco era tutto da inventare e costruire. Ricordatevi quando bimbi, dividevate lo spazio reale intorno a voi, trasformando le dimensioni reali in misure e luoghi immaginari. Noi, facevamo esattamente la stessa cosa. Non tutto quello che pensavamo riuscivamo a fare ma questo faceva parte del gioco. Abbiamo trascorso il tempo, seduti su di una pietra, tagliati dal vento, sul molo di una città, tra i merli di una torre, in una stanza vuota, in una strada affollata, in un vecchio Teatro. Abbiamo costruito macchine mentali formidabili che s’infrangevano contro i bastioni della produttività, si distruggevano in mille briciole e noi le ricostruivamo più ingegnose.

Abbiamo fatto viaggi di andata pieni di attese e viaggi di ritorno laboriosi. Alle volte poteva anche capitare che partivamo per una serata in un luogo sconosciuto e giunti a destinazione, affascinati dal posto, modificavamo sostanzialmente la scaletta degli eventi. Più tardi negli anni, diventammo più sofisticati, imparammo che si poteva inserire qualche elemento fondamentale a cambiare la natura del luogo, quando quest’ultimo non ci soddisfaceva. Accadeva di rado, una delle nostre teorie, più praticata che teorizzata, diceva che qualsiasi luogo a degli elementi teatrali. Del resto eravamo aiutati da una Architettura straordinaria. Cosa sono gli scalini davanti ad una chiesa o ad un edificio se non il proscenio di un palcoscenico permanente, allestito per una rappresentazione quotidiana.

I mille angoli dei nostri paesini sono fondali e quinte favolosi. La gente é quanto di meglio ci si può aspettare da un pubblico; anzi, definirli pubblico, nell’accezione passiva, é riduttivo. La loro partecipazione li rendeva coprotagonisti. Addirittura invadenti in alcune occasioni. Il discorso sullo spazio é per forza di cose collegato alla gestione della scena. A parte la “Pantomima scarlatta” e “Faxy city” che hanno avuto un progetto scenico dettagliato, in tutte le altre occasioni vinceva la natura dello spazio disponibile. L’accento era marcato sull’utilizzo in totale dello spazio, sulla percorribilità, dello spettacolo e dello spettatore. In un unico caso (Roma, testaccio 1989) abbiamo denaturato il prato erboso prospiciente il palcoscenico, allagandolo ininterrottamente per ventiquattro ore, per creare un pantano dove aveva luogo l’azione. Abbiamo sempre tentato di sorprendere lo spettatore alle spalle e da più punti. Gli abbiamo chiesto di seguirci e ci ha seguito. Abbiamo occupato lo spazio verticale di una piazza utilizzando una torre, un campanile, un alto edificio. Tutto questo avveniva quando l’organizzazione ci metteva a disposizione un filo elettrico con tre lampadine da cento watt, ed una tromba collegata ad una batteria di una macchina sotto il palco. Mentre intorno friggevano le salsiccie e le cime di rapa.

 

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