Recensione di: Maria Carolina, Rigina ‘e Napule, mugliera ‘e Ferdinando ‘o Re Nasone

S. Leucio(CE) – 16 Luglio 2009

Articolo e foto di Salvatore Viggiano

Dalla puntualità analitica di una complessa fase storica ad una finestra collaterale sulla corte dei Borbone a Napoli; 1768, anno di unione in matrimonio tra due reali di inclita dinastia, Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d'Asburgo - Lorena. La rilettura approntata dall'autore Salvatore Macri svela una corte, quella napoletana, screziata di vezzi e sfarzi, volutamente ignara del declino di un'epoca.
Dinanzi ad una scenografia umana, composta di diverse decine di attori in costante brulichio, la recitazione è avviata da una flautista di corte (Anastasia Cecere), su musiche di autori coevi (tra cui Paisiello). Congiuntura, dunque, di affresco macrostorico e di vita da reggia; la nobiltà a palazzo è in fibrillazione per l'arrivo in Campania della consorte di Ferdinando, l'austera e teutonica Maria Carolina (oltre l'appellativo nobile, Maria Rosaria Macri), che compare in abito sontuoso, con cadenza germanica e dizione curata. L'etichetta della principessa di Boemia irretisce il piglio spigliato, anche incontenibile, del futuro consorte; la sua figura granitica si imposta a centro palco, solenne e bellissima, mentre il Borbone "Nasone" va in deliquio dinanzi ad un simile richiamo, non solo dinastico. L'impiego corale del cast riproduce l'ampio contesto di corte, tra musici e declamatori di rime, nella trama di cortesie e garbi dell'alto rango. Le coreografie fanno da transizione tra le scene e offrono ulteriore lustro agli abiti realizzati da Pina Raucci. Nella pièce curata da Paolo Todisco, il ruolo popolare nella Campania borbonica emerge dalle quinte, nelle figure di due "racconta - storie" in abiti sicuramente più modesti, che in sequenza ritmica espongono inquietudini e leggerezze della fascia più umile, laddove invitano il pubblico a dedicare un'ora alle vicende approntate, insieme a loro che altro non vanno cercando, se non "del vino e un po' di compagnia".

Pienone per il Teatro dei Serici, ambientazione ben ragionata, se si riflette sul nuovo valore acquisito dalla Real Colonia di San Leucio, limitrofa alla Reggia di Caserta, dimora dei reali. Con Maria Carolina si rivive una generale atmosfera di delicatezza, mediata dalle collettive speranze di maggiore vivibilità nel Regno di Napoli; dopo la parentesi repubblicana del 1799, sarà appunto il popolo, incolto e spalle al muro, a dar man forte ai Sanfedisti del cardinale Ruffo per ricondurre Ferdinando e Carolina sul trono (come sarebbe stato scritto più di mezzo secolo dopo, "non vale parlare di Repubblica, se il popolo sovrano muore di fame"). Ma Todisco e Macri hanno con oculatezza posto in gran rilievo, dal primo istante di spettacolo, un trono illuminato, non solo intendendo l'uso del riflettore, e vacante. Forse un pregnante rimando alla nuova epoca favorita da Maria Carolina, in cui non signoreggia più solo l'effigie onnivora del sovrano, ma è anche il nuovo corso di riforme avviato dalla regina ad avere rilievo e a creare processi di ampia risonanza storica.

Consulta: Maria Carolina, Rigina ‘e Napule, mugliera ‘e Ferdinando ‘o Re Nasone

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