L’ultima Madre ad Officina Teatro

S. Leucio (CE) – Accabbai di e con Alessandra Asuni, 14 ottobre 2012

Articolo di Rossella Barsali

Accabai.: (v. intr.) – dallo spagnolo acabar overo terminare, dal sardo accabaddare, incrociare le mani al morto –assommare, cessare, completare, concludere…ultimare.
Il primo abbraccio ricevuto nella vita è di una donna, la madre. Il ciclo vuole che inizio e fine coincidano: il rito dell’Accabbai è la chiusura della vita con un abbraccio, quello della donna detta sa femmina accabbadora. Il fascino potente che ispira questa parola, di ispanica memoria, ricorda un rantolo estremo, nel movimento della bocca nella pronuncia, nel respiro che resta sospeso e poi si libera. Accabbai è un rito arcaico, oramai in disuso, praticato fino agli anni ‘50 in Sardegna, e sa femmina accabbadora, spesso la levatrice del paese, compiva il pietoso ufficio di liberare l’anima dal corpo quando il dolore era forte e la morte certa. Il malato sentiva arrivare la accabbadora convocata dai familiari dai campanacci che ella portava legati alla cintura, e nella notte, assisteva all’ultimo rito che culminava con “l’abbraccio” letale di lei, che lo stordiva con i semi di mandragora e poi gli donava la morte per soffocamento, o con un martello di legno ricavato da un tronco con una ramificazione, quindi un pezzo di legno unico.
Noi 12 (e non è un numero a caso!) spettatori non lo sappiamo, mentre ci avviciniamo alla cantina che ospita “Accabbai”, ma siamo morti. Per ognuno di noi, l’accabbadora (una sublime Alessandra Asuni) diventa “attittadoras”, allestendo un cenacolo a lume di candela, e sono le candele della veglia funebre, ed è una figurata Ultima Cena. Ogni suo movimento, lei vestita con gli abiti neri della povertà rurale senza tempo, è scandito dal suono dei campanacci che porta legati alla cintura. Il suo sguardo è tenero, ella versa il vino (Cannonau) e spezza il pane (Curasau), e ci si rivolge amorosamente in vernacolo sardo: Pacu o mera? Di ogni cosa, pacu o mera. E’ una madre, l’ultima. Ognuno di noi è qualcuno che ella ha consegnato al regno dei morti. Pesta i semi di mandragora misti al mirto, ed invita a mangiarne: è il dono dell’incoscienza, prima di attribuirci le nostre identità, di consegnarci l’ultimo abito indossato in vita. Siamo tutti rappresentati in una foto, e di ognuno ricorda il nome, amorosamente. Di ognuno ha la conoscenza della vita: ha dodici foglietti spiegazzati, da cui partono dei fili. Come nella mitologia greca, la Vita ha la lunghezza di un filo, e Cloto e Lachesi (le Moire) ne seguono il dipanarsi, ma è Atropo che la recide. La metafora del cuscino e del sasso che lo percuote per dodici volte è il momento del passaggio. E’ rito che abbraccia tutti i miti della Morte, e la sua epurazione. L’accabbadora rischiara col fuoco vivo il percorso della purificazione, che si completa con l’acqua, che noi dodici usiamo per detergere lei. Ma solo alla fine, dopo averle consegnato gli abiti, riceviamo il suo abbraccio, quello dell’Ultima Madre. Ed è un abbraccio che consegna all’Eternità, diverso per ognuno di noi.
Il pensiero corre ad Eluana Englaro, all’Eutanasia, ai Testamenti biologici, alle Estreme Unzioni e a tutto ciò che l’uomo si è inventato per illudersi di regolamentare l’ultimo passaggio, perdendo, in alcuni casi il significato profondo di cominciare e finire la Vita con un abbraccio…

consulta: Officinateatro: stagione 2012 – 2013 "Prospettive contemporanee"

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