Ensamble di Favata

Schiaffini

Bollen

Hargrove

 

Teano Jazz: doppio concerto di qualità nella serata inaugurale

Teano (ce), dal 22 al 24 luglio 2011

Articolo e foto di Gero Mannella

Enzo Favata, “Os Caminos de Garibaldi na America”

A chi dice che il free e la sperimentazione sonora sono al capolinea (non parlo del locale di Milano) proporrei di ascoltare le cose di Enzo Favata.
Sardo come il più noto Fresu, al contrario di quest’ultimo dedito ormai alle oleografie dalle introspezioni ed esplorazioni iniziali, si sporca le mani con coraggio nell’ardua ricerca del nuovo. E lo fa commistionando stili e timbri, culture ancestrali e scale modali.

Favata

Favata propone in chiave musicale un excursus sull’epopea garibaldina traendo spunto da un libello trovato in Brasile, “Os Caminos de Garibaldi na America”.
E alla maniera dell’eroe dei due mondi getta così un ponte ideale tra i ritmi del Sudamerica, il condombe e il maracatù, e le sonorità della tradizione etnica nostrana.
E trattandosi di incontri sonori tra culture eterogenee dove proporli se non a Teano, il luogo dell’Incontro garibaldino per antonomasia?
L’organico, da palati sopraffini, enfatizza gli ottoni. Infatti insieme al decano del trombone Giancarlo Schiaffini c’è la più che promessa Filippo Vignato, oltre alla tromba di Flavio Davanzo, allo stesso Enzo Favata ai sax, ed alla ritmica di Alfonso Santimone al piano, Danilo Gallo al contrabbasso e U.T. Gandhi alla batteria.

Vignato

Si parte da un brano crepuscolare dalla cadenza della Survivor’s Suite di Keith Jarrett, per poi assistere alla rielaborazione di un brano dell’800 dove al duetto free dei tromboni si accoda un Favata dall’agone coltraniano. Un po’ con lo humour alla Art Ensemble of Chicago seguono un paio di brani dove si intercalano frammenti sperimentali a marcette trionfali e parodie bandistiche. Il pezzo più intenso è probabilmente “Anita”, una ballata dove l’impasto sonoro degli ottoni assurge al proscenio. Il brano seguente, che sembra inizialmente un puzzle dai tasselli vaganti spinti al largo dal basso e dal piano, si coagula poi in un inatteso “Va pensiero” verdiano, dove il tenore virtuoso di Favata si abbandona ad ironie timbriche che evocano il miglior Ornette. Ed è ancora il band leader che lancia un assolo torrido al sax soprano nel brano conclusivo che, alludendo al ritiro a Caprera del nostro uomo, diffonde per l’auditorium le inequivocabili sonorità delle launeddas.
Concerto intenso, coraggioso, celebrativo fuor di retorica, sventatamente free, ma fuor di maniera.

Roy Hargrove Quintet

Da giovane leone ad ormai maturo interprete Roy Hargrove è un affezionato frequentatore dell'italico proscenio jazz.
Gli ingredienti che da sempre ne condiscono le sonorità sono ritmo frenetico e mutitimbrico, inclinazione al latino (ma anche traduzione dal latino, in versione salsa), recupero di standard non alieni da un mood melodico, attitudine alla contaminazione e all'ibridazione interculturale, inclinazione ad una fusione digeribile, o in rari casi ad una fissione, ma dalle scorie volatili che non sedimentano.
Dal disco d'esordio Diamond in the Rough del 1989 fino al recente Emergence, passando per The Vibe e Habana, nel mare magnum del mainstream la sua goletta veleggia che è un piacere.
Poca sperimentazione stilistica, scarsa attitudine al borderline, quanto piuttosto il piacere di rivisitare e reinterpretare i luoghi comuni dal bop.
L'organico con cui si è presentato al Teano Jazz constava di Justin Robinson (sax and flauto), Gerald Clayton (piano), Danton Boller (basso), Montez Coleman (batteria) e le percussioni di Horacio El Negro Hernadez.

Robinson e Hargrove

Costui, già ospite in passato delle rassegne nostrane in qualità di batterista, si è aggiunto al gruppo a metà concerto ed ha dato al tessuto ritmico il colore afro-cubano e la polivalenza di timbri.
La tromba di Roy Hargrove è protagonista sin dall’inizio con la leggerezza e la disinvoltura che conosciamo, in un bop dal passo alla Milestones, col basso che rincorre le pietre miliari e il piano in un assolo inedito.
La Joy+Swing si replica col pezzo seguente nel quale il sax alto di Justin Robinson sembra fare il verso al migliore Donald Harrison.
Senza fiato si continua con le sincopi a mille, con la batteria segna accelerazioni e decelerazioni come in assenza/presenza di un autovelox, ed il piano che si concede un’improvvisazione dal sapore kikoskiano.

Robinson

Si passa poi ad una bossa che ondeggia sul grattato di Boller, mentre il flicorno di Hargrove e la melodia hanno un retrogusto alla Kenny Dorham.
Ancora il flicorno del leader, ma con la sorpresa del vocal, ci ammalia in “Never let me go”, prima di cedere il passo ad un ritmo più decisamente cubano con l’ascesa al palco di Horacio El Negro.
Costui con la maschera gioiosa e complice che conosciamo comincia prima con un assolo in un brano dalla cadenza alla “The song is you”, e poi si produce in estenuanti duetti con Montez Coleman, che gasano il pubblico al parossismo. Nei pezzi salsa Roy Hargrove frequenta per lo più i suoni alti, Justin Robinson, incravattato e monolitico, cava scale audaci e glissati memorabili, mentre Clayton si mimetizza in un Ruben Gonzales da giovane.

ElNegro

Il refrain del bop che segue, marchio di fabbrica del mood hargroviano, ha in più qualcosa di ipnotico, ciclico, che vorresti andasse avanti all’infinito.
Il pubblico lo avverte ed è un tripudio, anche per l’improvvisata passeggiata del trombettista tra le file dell’auditorium. Il bis allora è d’obbligo.
E quel desiderio di replica all’infinito di quei suoni, di quel clima, di quell’unico pulsare di 2 batterie ed alcune centinaia di miocardi, ti rimane dentro anche quando lasci il luogo del delitto.
Al punto da augurare alla non rassegnata rassegna analoga infinita replica.
Insomma il Teano Jazz è vivo e lotta insieme a noi.

consulta: Teano Jazz, diciannovesima edizione

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